Per sfruttare a pieno le potenzialità dell’Industria 4.0 bisogna superare un “collo di bottiglia” non certo nuovo: la scarsità di risorse umane dotate delle competenze necessarie. Cerchiamo di capire quali sono le strade per superare questo ostacolo.
Per sfruttare a pieno le potenzialità dell’Industria 4.0 bisogna superare un “collo di bottiglia” non certo nuovo: la scarsità di risorse umane dotate delle competenze necessarie. Cerchiamo di capire quali sono le strade per superare questo ostacolo.
di Marco Bianchi
Bottleneck, ovvero “collo di bottiglia”: una ben nota metafora che indica qualcosa che ostacola e rallenta, impedisce e ostruisce. Per lo sviluppo dell’Industria 4.0 uno dei colli di bottiglia che più si addicono alla definizione di cui sopra è la scarsità di risorse umane dotate delle competenze necessarie. Tema per nulla nuovo. Ma il fatto che rende necessario mantenerlo sempre on air è che se non viene affrontato in fretta e bene il futuro della nostra industria è a rischio. Signori e signore della politica, delle istituzioni, delle accademie e della scuola in genere: per favore, prendete nota. Segnatevelo col pennarello rosso sull’agenda. È urgente. Il futuro non aspetta, anzi è già qui, e ci sta lasciando indietro.
Secondo una recente ricerca della University2Business (gruppo Digital360) in collaborazione con Enel Foundation, la situazione è preoccupante. Solo il 30% degli studenti universitari intervistati afferma di possedere conoscenze teoriche avanzate sul digitale applicato al business (mobile advertising, cloud, fatturazione elettronica e Big Data) e solo il 16% ritiene di saper sviluppare software. Il 29% sta imparando a farlo. Per il 60% degli universitari, termini relativi ad alcuni dei principali fenomeni dell’innovazione – come blockchain, Internet of Things e anche Industria 4.0 – sono del tutto sconosciuti. E solo il 21,5% possiede esperienze concrete relative a blog, social network, e-commerce. Questi giovani vivono una paradossale situazione schizoide: da un lato percepiscono la necessità di essere proattivi e di “fare impresa”, e parecchi di loro sviluppano idee di business. Dall’altro, non hanno idea di come metterle in pratica, e soprattutto come utilizzare le tecnologie. Solo il 19% del campione ritiene, infatti, che il digitale favorisca lo sviluppo di modelli di business innovativi.
Secondo Andrea Rangone, ceo di Digital360, «Il gap di competenze degli studenti si sta riducendo e lo prova il fatto che è raddoppiata la percentuale di coloro che hanno sviluppato progetti digitali, mentre è calata sensibilmente la quota di coloro prive di conoscenze teoriche e concrete. Ma non è sufficiente: una fetta ancora troppo grande degli universitari è ancora inconsapevole di quanto il digitale stia trasformando la cultura aziendale, i processi e i modelli di business, con una scarsa preparazione teorica e un’ancora più lacunosa competenza pratica» (dall’intervista rilasciata a Il Sole 24 Ore del 7 febbraio 2018). Dall’altro lato del tavolo, il 76% dei responsabili delle risorse umane intervistati dai ricercatori di University2Business sottolinea la difficoltà di reperire laureati con competenze digitali adeguate.
Cause e responsabilità
Dove stanno le cause del collo di bottiglia? In primo luogo nella inadeguatezza del sistema formativo. La ricerca ha esaminato 4200 corsi di laurea di 556 facoltà trovando 21.490 corsi dedicati a questi temi; quelli a indirizzo digitale sono diffusi in larga parte nelle facoltà informatiche e scarsi in quelle scientifiche, mentre i programmi di studio a indirizzo “imprenditoriale” sono presenti nelle facoltà economiche ma rari in quelle scientifiche e informatiche. Ma la responsabilità, afferma ancora Rangone, è anche delle imprese: «Le aziende devono fare la loro parte, aumentando gli investimenti in piani di formazione che mettano al centro competenze digitali e imprenditoriali». La ricerca mette in luce il fatto che, se da un lato oltre due imprese su tre considerano le competenze in questione requisiti molto importanti per assumere, dall’altro sono ancora poche le imprese che investono nello sviluppo di competenze digitali (il 38% del totale) e imprenditoriali (il 28%) dei propri dipendenti e che soltanto un HR Manager su quattro abbia effettuato una verifica delle skill presenti in azienda.
Il collo di bottiglia, d’altra parte, non riguarda solo figure professionali con curriculum universitario. È molto più vasto, perché le aziende hanno bisogno anche di personale tecnico a vari livelli. Per esempio, le 400 aziende italiane del segmento robotica e automazione cercano tecnici capaci di disegnare robot, programmarli, curarne la manutenzione, descriverli e “venderli” a clienti di ogni paese del mondo. Secondo l’agenzia di lavoro e-work SpA, nel 2018 si dovrebbe registrare un aumento delle posizioni aperte fra il 10 e il 15%, con un fabbisogno di figure che copre l’intero processo produttivo. Ma non è detto che si troveranno, dato che i giovani con le skill necessarie sono pochi, e vi è pure una fortissima concorrenza delle aziende estere, che li attraggono con remunerazioni più elevate. Secondo dati di e-work, la retribuzione annua lorda in Italia è di 28-36 mila euro per analisti e progettisti di software, 30-40 mila euro per i disegnatori industriali e 30-35 mila euro per tecnici esperti in applicazioni. Un ingegnere programmatore di robot arriva fino a 40 mila dopo almeno 5 anni esperienza. Nel resto d’Europa, secondo il portale PayScale, si va da circa 37 mila euro in Gran Bretagna a circa 44 mila in Germania (fonte: Il Sole 24 Ore del 22 gennaio 2018).
Puntare su formazione interna e scuole
Nei 3 anni del Piano nazionale Impresa 4.0 nelle aziende italiane saranno attivati almeno 14 miliardi di investimenti in macchinari a tecnologia avanzata, si stima circa 45 mila nuove macchine: da quelle standard ai robot costruiti sulle esigenze specifiche del compratore, con prezzi che vanno da poche decine di migliaia di euro a molte decine di milioni di euro. Ma quando le nuove macchine saranno nei capannoni, chi le farà funzionare? Anche le imprese più piccole dovranno dotarsi delle competenze necessarie a non sprecare il frutto più pregiato dell’investimento, cioè i dati che le macchine mettono a disposizione. Servono esperti di domini e cloud, di automazione e di processi, installatori e analisti dei dati. Informatici che estrapolino i dati utili e facciano applicazioni personalizzate per le imprese, tecnici e ingegneri capaci di adattarli alle macchine. Dove li troveremo?
La prima risposta è la formazione dei dipendenti già al lavoro. Quindi corsi a valanga… Si stima che nel 2017 sono aumentati del 10% rispetto al 2016. Integrazione di sistemi, realtà aumentata e cybersecurity sono i temi più richiesti dalle imprese. Ma anche qui potremo trovare un collo di bottiglia: i formatori in grado di offrire corsi pratici, da linea di produzione, sono pochi rispetto al volume della domanda. La seconda risposta è, se possibile, più difficile: inserire in azienda giovani tecnici formati dalle scuole. Qui il collo di bottiglia ha le seguenti misure: tecnici formati ogni anno in Italia 8 mila, in Germania 800 mila. E pensare che la richiesta delle aziende è tale che 8 diplomati su 10 trovano lavoro immediatamente…
Come superare l’impasse? Soluzioni miracolose a breve termine non ne esistono. In attesa di scelte politiche che agiscano strutturalmente sull’offerta formativa, non resta che affidarsi alla creatività e all’intelligenza degli individui, che per fortuna non mancano nemmeno nel disastrato sistema scolastico nostrano. Vi sono esemplari casi di collaborazione fra scuole secondarie, istituti tecnici soprattutto, e aziende, che stanno producendo risultati promettenti. Fra i primi, l’ITS Meccatronica Lombardia di Sesto San Giovanni (MI), che prevede di mettere sul mercato del lavoro, nei prossimi 2 anni, circa 200 supertecnici. Giovani che ricevono duemila ore di formazione da docenti provenienti dal mondo dell’industria, e che trascorrono 800 ore in fabbrica dove mettono in pratica le nozioni apprese in aula. A monte vi è una fondazione a cui partecipano 30 imprese, fra produttori di macchine e utilizzatori finali, che partecipano con la scuola alla definizione dei programmi di studio e dei contenuti insegnati. Un modello eccellente, da diffondere e replicare. Anche perché non siamo in presenza del “trend dominante”: la titolare di un’azienda di Varese nota che all’ITIS della sua città cancelleranno il corso di meccanica, e nella vicina Gallarate quello di idraulica.
Il messaggio dunque è questo: imprenditori, muovetevi verso le scuole. Coinvolgetele, chiedete, ma anche offrite. Ci sono energie positive da risuscitare. Lo sappiamo che avete molte cose da fare. Ma se trascurate questa, tutte le altre diventeranno molto più difficili. O anche impossibili.
a cura di Loris Cantarelli
Condividi l'articolo
Scegli su quale Social Network vuoi condividere